Sigismondo Arquer l’uomo che osò sfidare l’Inquisizione

Sigismondo Arquer l’uomo che osò sfidare l’Inquisizione

Di Ennio Porceddu

Cagliari nel XVI secolo era in mano alla corruzione e al malaffare. Tra le mura di Castello e col bene placido della Chiesa e dentro le stanze dei palazzi nobiliari, si complottava nell’ombra. Era anche il tempo in cui sulla cittadella si allungava all’ombra la mano nera della Santa Inquisizione, spesso utilizzata per sostenere o ostacolare oscure convivenze di dominio.

In questo clima di tumulti, incertezze e contrasti, numerosi furono i personaggi che si identificarono per tenacia e audacia, elaborando alcune tra le più belle ed avvincenti pagine della  storia dell’Isola. Uno di questi personaggi fu il giovane cagliaritano Sigismondo Arquer, che passò secondo gli storici del tempo alla storia come il “Giordano Bruno sardo”.

Nato a Cagliari nel 1530 da nobile famiglia Arquer, il padre Giovanni Antonio era consigliere del viceré Antonio de Cardona: quando quest’ultimo fu accusato di negromanzia, Giovanni Antonio Arquer fu coinvolto e arrestato dall’Inquisizione, poi assolto.
Sigismondo studiò a Pisa e a Siena, dove conobbe Lelio Sozzini. Terminò gli studi nel 1547 con la doppia laurea in Diritto Canonico e Civile presso l’Università di Pisa e in Teologia a Siena.  Poi rientrò in Sardegna, l’anno seguente, per sostenere la causa del padre  che era finito invischiato in conflitti con la nobiltà locale, in particolare con la famiglia Aymerich.. Infine, intraprese un viaggio verso Bruxelles alla corte di Carlo V, presente in quel momento anche il principe Filippo. Durante il viaggio sostò in Svizzera: conobbe in particolare Celio Secondo Curione e Sebastian Münster, che lo invitò a collaborare alla sua Cosmographia universalis, uscita nel 1550, di cui l’Arquer curò la parte riguardante l’Isola scrivendo “Sardiniae Brevis Historiae et Descriptio” nella quale erano contenuti disegni e carte geografiche di Cagliari e della Sardegna, con riflessioni personali, statistiche, descrizioni e contenuti storiografici di vario genere. Questo lavoro fu molto apprezzato da Carlo V e da quel momento il giovane principe Filippo, lo assunse al suo servizio. Dopo aver seguito la corte imperiale ad Augusta, nel 1551 si trasferì in Spagna. Nel 1554 fu nominato consultore fiscale per la Sardegna.

Oltre che a viaggiare e conoscere uomini di grande intelletto, la carica di avvocato fiscale lo portò Sigismondo Arquer a mettere le mani su quei loschi affari che già trent’anni prima avevano portato Giovanni Antonio a smascherare i membri più in vista dell’aristocrazia feudale sarda. Fu soprattutto Salvatore Aymerich a reggere le intricate fila del malaffare cagliaritano e a muovere la potente macchina dell’Inquisizione contro Sigismondo Arquer. In virtù della sua amicizia con l’inquisitore Andrea Sanna, nel 1558, Don Salvatore l’Aymerich, (lo stesso che anni dopo fu il mandante dell’omicidio di Gerolamo Selles, fratello del magistrato pubblico Bartolomeo, avversario della potentissima famiglia e a sua volta intimidito e oltraggiato per aver accusato i feudatari di speculazioni illecite sul grano), riuscì a far aprire un fascicolo contro l’Arquer, montando una serie di accuse per eresia. Anche l’amicizia con il Centellas – accusato di eresia e condannato alla pena del rogo a Valencia nel 1564 – sarà strumentalizzata nel processo che Sigismondo subirà più tardi, le quali, però, caddero proprio grazie alla difesa che quest’ultimo riuscì a prepararsi e portare in tribunale di Madrid davanti al re.

Conscio che Cagliari non era più una città sicura per lui, nel 1560 Sigismondo ritornò in Spagna. Ma il suo destino sembrava ormai tracciato. Nel 1562 con l’arrivo dell’inquisitore  Diego Calvo, temuto, feroce, corrotto e deciso ad andare fino in fondo alla questione per il nobile cagliaritano la situazione peggiorò. Trascorso poco meno di un anno, Sigismondo fu arrestato definitivamente con l’accusa di eresia a Toledo. Si diede inizio ad un processo lungo e doloroso durato oltre sette anni, durante la quali Sigismondo provò in tutti i modi a difendersi, dichiarandosi fino all’ultimo cattolico. Provò perfino a evadere, per poi essere catturato e nuovamente rinchiuso nelle carceri del Sant’Uffizio. Fu torturato due volte con l’obiettivo di estorcergli quella confessione necessaria per porre fine alla questione. Sigismondo doveva dichiararsi colpevole e firmare la sua abiura. Ma non poteva accettarlo. Dichiararsi colpevole avrebbe significato ammettere il falso e non poteva. Anche a costo della vita. Fu usato contro di lui anche un “pentito”, il francescano Arcangelo Bellit che dopo aver ammesso i propri delitti era stato condannato all’ergastolo per aver negato l’esistenza del purgatorio e la presenza di Cristo nell’ostia; diventato accusatore segreto di Arquer, ottenne la riduzione della pena a soli tre anni di carcere, poi mutati in una semplice nota di biasimo.

Sigismondo, in quei momenti di grande sofferenza, iniziò a scrivere un memoriale difensivo in lingua castigliana, annotando i suoi appunti nel retro delle carte processuali nelle quali erano riportate le accuse contro di lui. Quelli che inizialmente erano semplici annotazioni, diventarono un componimento poetico che egli intitolò “Passion”, composto di 45 strofe e 10 versi ottosillabi con rima baciata e alternata. Eseguita la condanna a morte il 4 Giugno del 1571 a Toledo, fino alla fine, nonostante le fiamme avessero già cominciato a lambire il suo corpo,  Sigismondo, urlava la sua innocenza. Dopo aver sopportato otto anni di carcerazione preventiva e la tortura, il giovane nobile cagliaritano non volle mentire per salvarsi e con grande coraggio dichiarò di preferire la morte.