IL GABBIANO SOLITARIO

IL GABBIANO SOLITARIO

Di Ennio Porceddu

             Ricordo ancora il volto di un uomo dimenticato da tutti. Abitava in periferia, lontano dal lungo viale che da Piazza D’Armi porta alla Piazza San Michele. Lontano dal traffico turbolento delle ore di punta.

Lui era un poeta ma anche uno scrittore: aveva scoperto la passione a sessanta anni dopo essere andato in pensione. Scriveva versi e qualche novella che inviava regolarmente a un giornale locale con la speranza di una pubblicazione, soprattutto la sera in un appartamento modesto al pianterreno di una palazzina costruita tantissimi anni fa. Lo vedevo spesso dalla mia finestra che si affacciava alla sua. Era sempre pensieroso e spesso camminare nervosamente: pareva che contasse i passi.   Usciva a ore fisse e faceva sempre lo stesso itinerario: la prima tappa alla rivendita di pane, la latteria e infine s’infilava in una piccola bottega per uscirne subito dopo con foglietti di carta a quadretti che acquistava dall’anziano bottegaio.

Quando capitava di incontrarlo ci porgevamo i saluti, qualche volta lo seguivo e ascoltavo i suoi discorsi: mi piaceva trovarmi sui suoi passi e osservare da vicino a quei lineamenti severi e provati da una vita amaramente provata. Non camminava svelto, ormai gli anni, poveretto, gli pesavano da morire. Indossava sempre lo stesso abito, sempre la stessa cravatta blu  dalle strisce bianche.

A volte mi faceva pena. Quando usciva dal portone, era sempre triste, parlottava.

Il freddo non lo sopportava. Da parecchi anni ma non faceva nulla per scrollarsi di dosso la tristezza. Mai un cinema, mai una sera a mangiare la pizza, mai una passeggiata al parco di Monte Claro. Quando si ricordava, si vestiva pesante: un vecchio cappotto “stanco”, che di stagioni fredde ormai ne aveva sopportati tanti, e allora l’andatura si faceva più sicura ed era emozionante osservarlo.

Mentre rincasava, la sera e sempre a ore fisse, sembrava più allegro, felice. All’imbrunire dalla sua stanza filtrava una luce fioca. Pensavo alle poesie o a qualche novella che il povero scrittore stava redigendo.

Per qualche tempo non lo vidi più. Mi mancava. Domandai tra i condomini e seppi che era andato a vivere in paese, per alcuni mesi, a casa della figlia sposata.

Un giorno lo rividi uscire dal portone, camminava lentamente, com’era solito fare. Ci salutammo. Nelle mani stringeva una decina di foglietti, dove aveva scritto alcune sue poesie. Parlammo per qualche minuto. M’invitò a casa. Accettai. Mi fece leggere alcuni sui lavori: una composizione l’aveva dedicata alla Risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo.

E’ impossibile ricordare il canto: parlava del Figlio di Dio morto, delle mute campane piangenti e dell’esplosione di luce e di gioia per il Cristo Risorto.

“Sai – mi disse – lo scritta due giorni fa e devo regalarla al parroco della mia parrocchia. Glielo promesso”.

Un altro componimento l’aveva dedicato alla donna che aveva amato tanto e che era volata in cielo da alcuni anni.

“Come l’ha conosciuta?”

“A casa di amici comuni. Era bellissima. Ci siamo innamorati subito. Da quel giorno non ci siamo più lasciati. Dopo tre mesi ci siamo sposati. Il nostro è stato un matrimonio stupendo, vissuto con tutte quelle emozioni che ancora mi risuonano dentro. L’ho amata tanto e sono stato ricambiato con il suo amore infinito”.

Mentre mi apriva il suo cuore i suoi occhi verde mare si velarono: come gocce di pioggia, e nel luccichio intravedevo tutta la sofferenza dell’uomo.

“Non abbiamo avuto figli maschi. Il Signore ci ha concesso il grande privilegio di una figlia, Angela. Un amore di ragazza. Ha trent’anni, laureata in pedagogia, lavora presso un istituto privato. E’ sposata da cinque anni con un imprenditore edile. Vorrei che fosse qui più spesso ma capisco che ormai lei ha la sua vita, i suoi interessi”.

Intanto che parlava la voce, si fece tremula. Era emozionato. Forse per nascondere il suo stato d’animo, m’invitò a sedere.

“Accomodati, pure, ti posso invitare in po’ di tè?”

“Volentieri, se non le è troppo disturbo” risposi.

Nel momento in cui mi accingevo a sorseggiare quella tiepida bevanda, si allontanò. “Aspetta un momento” – mi disse – e scomparve nella sua camera, uscendone poco dopo con un libretto avvolto con un foglio di carta velina verde legata con un nastrino bianco.

“Questo è per te”. Mi regalò suo libro di poesie “Il gabbiano”, che una casa editrice isolana, gli aveva pubblicato tanti anni fa. Fu per me un regalo molto bello e inaspettato. Lo ringraziai. Lui era a conoscenza che amo la poesia.

Una sera mentre si discuteva del più e del meno, mi confessò le sue paure dopo la scomparsa della moglie. “Il buio. Me lo porto dentro da tanto tempo, mi fa venire in mente la guerra. Il secondo conflitto mondiale mi ha in pratica scaraventato nella Campagna di Russia. Ero uno dei tanti italiani che partiva per il fronte russo, assieme agli alleati tedeschi. Per cinque anni, non rividi il mio paese, i miei genitori, la mia casa”.

Per un attimo, la sua voce divenne flebile, tremolante, poi ci fu il silenzio, che si protrasse per qualche minuto. Io non sapevo che fare. “Professore sta bene?” gli chiesi un po’ preoccupato. ” Sì, va tutto bene”. Era chiaro che i ricordi lo turbavano molto. Lì per lì, data anche la mia giovane età, non mi rendevo conto del suo stato d’animo e a quali sofferenze la vita lo aveva sottoposto. Lo capii solo più tardi.  Intanto riprese a raccontare le sue peripezie in terra russa. “Ho ancora davanti agli occhi i morti di Charkov. Le drammatiche giornate di ritirata: la fuga verso Kiev, dove fummo costretti a scavare delle trincee per difenderci, non solo dall’attacco dei soldati e partigiani sovietici, ma soprattutto dagli alleati tedeschi che volevano razziare viveri e carburante. Ricordo le ferite subite durante quelle marce forzate in mezzo alla neve. Poi una fiocca luce in lontananza e la speranza di ritornare a casa. Infine il buio, svenni. La salvezza arrivò grazie ad una famigliola russa che mi aveva ospitato e curato. Per diversi giorni fui sopraffatto dalla febbre alta. Deliravo. Poi finalmente la temperatura del mio corpo tornò a livelli normali e le ferite iniziarono il loro decorso verso la guarigione.

Quindici giorni dopo, anche se non ero in piena forma, li lasciai per raggiungere la mia compagnia. Mi abbracciarono come se fossi un loro congiunto e il più anziano esclamò: Italiani brava gente, per questo siamo lieti di averti aiutato. Furono diversi i soldati che avevano ricevuto ospitalità nelle povere Isba disseminate lungo la steppa russa, durante la ritirata del 1943.

“Certo, ne ha passate tante professore?

“Sì, ne ho passate tante, ma ho avuto anche un po’ di fortuna, non credi?”

Egli era visibilmente commosso e mi faceva tanta tenerezza mentre cercava di scusarsi con me: era un uomo solo che aveva la necessità di dialogare con qualcuno per continuare ad esistere. E’ mia convinzione che le persone anziane non dovrebbero stare mai sole, perchè spesso sono soggette a veri e propri processi di emarginazione e d’isolamento che né che accresce la solitudine. Egli per combattere questo stato d’isolamento scriveva poesie che poi pubblicava su riviste specializzate della Sardegna e della Penisola. Anche la sua compagna di vita, che aveva sposato in Cattedrale, nonostante i suoi genitori inizialmente non fossero d’accordo, scriveva poesie che, normalmente, pubblicava su alcuni periodici parrocchiali.

Quella sera parlammo tanto. Mi racconto di come aveva conosciuto sua moglie, del primo appuntamento, dei sogni di gioventù, degli studi all’Università. “Mio padre avrebbe voluto che diventassi un grande chirurgo, ma la vita non è mai come vorresti che fosse. Io m’iscrissi in Lettere, ma fui costretto ad abbandonare al terzo anno. Ripresi gli studi dopo la guerra. A volte ci sono eventi incontrollabili che ti portano verso altre strade. L’entrata in guerra dell’Italia era uno di questi eventi”.

Il racconto si faceva sempre più interessante ed io ero lì ad ascoltarlo incantato con i miei diciassette anni appena compiuti. Gli studi a metà strada, i miei hobby, la musica e tanta voglia di vivere. Intanto il sole era già tramontato da qualche minuto e la stanza si era rabbuiata.

“Aspettami” mi disse “accendo la lampada”. La stanza s’illumina di luce tenue. Sul suo volto traspariva d’incanto tutta la solitudine e la malinconia di un uomo. Capivo il suo stato d’animo. Nel silenzio che seguì, potei udire il miagolio di un gattino che si era arrampicato sul balconcino che dava alla cucina. Mi voltai verso la portafinestra priva di tendine.

“E’ il gattino di una mia vicina, ogni tanto viene a trovarmi perchè sa di trovare qualcosa da mangiare dentro una piccola ciotola”. Poi volle aggiungere:  qualche volta viene a casa  una vicina per farmi un po’ di pulizie”.

Mentre parlava, era sereno come non mai.

“Lei ama molto gli animali?” gli domandai. Per un attimo, ebbi impressione che dal volto erano scomparse le pieghe della saggezza. I suoi occhi verdi si riempirono di dolcezza. “Molto” disse il poeta scuotendo la testa “da ragazzino, abitavo a Pirri in una casa campidanese con un grande giardino, avevo un bel gatto soriano e un cagnolino. Quando non avevo da studiare, passavo il tempo a giocare con loro.  Basta con i miei amacord. Domani sarai tu a parlarmi, dei tuoi studi dei tuoi progetti, dei tuoi sogni”.

In quel mentre, dopo aver dato una sbirciatina all’orologio che segnava le otto. Il volto del poeta appariva contratto dal timore. Era evidente che avrebbe voluto che io rimanessi ancora un po’ a chiacchierare.  “Lei è stanco, ora vado. Posso tornare un altro giorno?”

“Quando vuoi, mi fa piacere conversare non te” mi rispose. Aprì l’uscio e lo lasciai spalancato: sul pianerottolo c’era un bambino che giocava con delle palline colorate.

“Ciao, vuoi giocare con me?” mi disse. “Non posso, sarà per un’altra volta”, “Va bene. Ricordati che hai  promesso”. Sigillammo l’accordo col palmo delle mani.

Il giorno seguente, con i miei piccoli risparmi, andai in libreria e acquistai “Il leone di Dio” il libro di Taylor Caldwell, sulla vita di Saulo di Tarso (San Paolo) per regalarlo all’amico poeta.

Quando bussai, stentò un po’ ad aprire. Pensavo fosse uscito. Avvicinatomi alla porta, accostai l’orecchio. Stavo per andarmene quando sentii il rumore della serratura. Si affacciò sull’uscio “Scusami –  sussurrò con un fil di voce – non ti avevo sentito, stavo preparando da mangiare per il gattino. Accomodati”.

Ci accomodammo nel piccolo salottino, l’uno di fronte all’altro. Egli notò il pacchetto che ancora tenevo stretto sulla mano destra. Ebbi la sensazione che sapesse del regalo, perchè mentre mi osservava, uno strano bagliore illuminò i suoi occhi.

“Questo è per lei – gli dissi – un piccolo pensiero”.

Non so quanto tempo ci mette un bambino a scartare un regalo, ma sono sicuro che il povero poeta lo l’avrebbe battuto. Scarto il pacchetto in un baleno e si commosse tanto quando vide il libro. “E’ il più bel regalo che abbia mai ricevuto dopo tanto tempo – mi disse affettuosamente. “Come sapevi che non lo avevo ancora letto?”

Alzai le braccia. “Non l’ho sapevo. Mi sono fatto consigliare da mia madre”.

“Ringrazia tua madre. Lo leggerò con grande piacere – sussurrò – grazie! ragazzo mio”.

Nel momento in cui rientravo, guardai l’orologio che spiccava sulla parete della cucina. Erano già le otto e venti. Dovetti scusarmi in gran fretta con i miei genitori. Un regolamento, non scritto, voleva che alle otto in punto dovessimo trovarci tutti attorno alla tavola per la cena. Mio padre non concedeva deroghe a nessuno.

Passai tante altre serate in sua compagnia. Ed ero sempre più affascinato dalla sua gentilezza, dalle sue storie, delle sue poesie.

Un giorno volle leggermene una che aveva intitolato “…Eppoi dormireHo tra i miei ricordi il foglietto dove avevo trascritto questo poema. “Vorrei si cantasse il mondo/ ed un mare di fiori di campo/ popolasse la terra della mia malinconia. /Vorrei si fermasse il treno dell’odio e della morte / e nella notte l’amore alzasse la quiete e il sole./ Vorrei ricostruire il tetto sacro/ che l’uomo ed il vento impetuoso hanno fatto crollare. /Vorrei giorni silenti/ per invocare il Tuo nome Signore / Specchiarmi nella fontana dei saggi / ritrovare la via. /…Eppoi dormire”. “L’ho scritta per te”- mi disse – “così quando non ci sarò, più mi ricorderai” Poi aggiunse un passo di San Paolo: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del signore.”

Una domenica, mentre usciva dalla Chiesa di Dio, mi confessò di sentirsi molto stanco. Lo accompagnai a casa. Cercai di capire qual era il suo problema.

“Da qualche tempo – mi disse con un fil di voce – non sto bene. Le mie urine sono rosse: c’è del sangue.  Mi sento molto debole”.

Si accasciò sulla poltroncina che teneva in cucina. Era pallido e molto provato. I suoi occhi lucidi e smorti mi fissarono a lungo, come per la prima volta.

“Si è fatto visitare da un medico? – gli domandai preoccupato. Mi rispose di no.

Allora corsi sul pianerottolo, bussai alla porta accanto e implorai aiuto alla signora perchè chiamasse, con urgenza, un dottore.

Il medico non si fece attendere e neppure la probabile diagnosi: un tumore alla prostata.

“Il malato deve andare in ospedale – disse rivolgendo lo sguardo verso di noi. “Siete dei parenti?” “No – risposi. “Ha dei parenti?” “Una figlia” – soggiunse la signora del pianerottolo con voce tremolante.

Attraverso una conoscente, la vicina di casa, riuscì a informare la figlia Angela.

Un quarto d’ora dopo un’ambulanza lo trasferì all’ospedale San Giovanni di Dio, al Centro Tumori.

Lo avevano sistemato in una camera a due letti, molto confortevole. Il personale di assistenza e i medici erano gentilissimi. Andai a trovarlo tutti i giorni. Era molto provato ma accettava con grande coraggio la sua malattia.

“Mia moglie mi sta aspettando lassù, non posso deluderla – mi disse una sera. “Ricordati, ragazzo, che c’è un momento, nella vita, in cui devi rendere conto al buon Dio”. Non seppi trattenere le lacrime e lo abbracciai con tutte le mie forze. Un velo di nebbia sembrò oscurare gli occhi del poeta. Sentivo il suo cuore palpitare forte sul mio petto. Era come se il mondo mi crollasse addosso. Lui era stato per me l’amico più sincero che mi aveva insegnato tante cose. Non volevo che se ne andasse.

Il giorno della Risurrezione del Signor Gesù Cristo, il povero poeta aveva già ricevuto l’eucarestia e l’estrema unzione. “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23, 43). Intorno alle 23,00 dello stesso giorno, si addormento per sempre.

Ricordo quanto disse Papa Giovanni Paolo II, poco tempo fa: “La morte è tutt’altro che un’avventura senza speranza per quanti la vivono in Cristo. Essa è esperienza di partecipazione al Suo mistero di morte e risurrezione”.

A questo punto non vedrò più quella luce fioca della sua stanza. Se n’è andato come un gabbiano solitario, con le sue candide ali bianche, per ricongiungersi con la sua compagna di vita. Restano gli amacord, le poesie e le sue novelle: quei memorabili e splendidi poemi che parlano dell’amore di Gesù Cristo per gli uomini di buona volontà, degli uccelli, della natura, della povera gente e di un povero poeta dimenticato da tutti.