LA NOBILTA’ SARDA NEL XVII SECOLO

LA NOBILTA’ SARDA NEL XVII SECOLO

di Ennio Porceddu

 

 

I nobili, rappresentavano, per consuetudine, il ceto più importante, e comprendevano la nobiltà feudale, la nobiltà titolata, la nobiltà senza titolo e infine i cavalieri. I titoli feudali si trasmettevano per regola ai discendenti maschi e femmine , con ordine di primogenitura e con prelazione  di quelli a queste Agli ultrageniti delle famiglie insignite di titoli  primo geniali, spettava il diritto di titolo nobile con l’aggiunta del  primo dei titoli o predicati del primogenito. Il titolo è trattamento di  “don” ai maschi e “donna” alle femmine , e spettava a tutti i membri delle famiglie che furono decorate del cavalierato e delle nobiltà prima del 1848.

I più importanti feudatari quali i Borgia, gli Zuriga, i Centellas, risiedevano in Spagna consentendo che i loro feudi fossero amministrati da regidore o podatari. Nell’Isola risiedevano i piccoli e medi feudatari (Castelvì, Alagon, Zatrillas, Brondo, Crispi, Bou) che più delle volte entravano in lite con l’amministrazione e col ceto medio per non perdere i propri privilegi o per accedere alle cariche degli Uffici pubblici.

La nobiltà senza feudo, di solito proveniva dalla casta dei burocrati e dei togati; il loro potere era esercitato attraverso le cariche pubbliche che spesso erano ereditarie. Altri nobili erano di provenienza mercantile (Aymerich, Manca, etc), che investivano i loro capitali nell’acquisto di feudi. Con i matrimoni combinati, poi, i feudi erano concentrati nelle mani di pochi, per cui ogni possibilità di accesso era quasi impossibile.

 

Dal secolo XVI, il numero dei cavalieri e dei nobili aumentò: erano piccoli borghesi rurali e personaggi che appartenevano ai ceti bassi dell’amministrazione pubblica o alla borghesia urbana.

Nel XVII secolo, poiché le finanze dell’amministrazione avevano la necessità di essere rimpinguate, per aumentarne il gettito, si procedete ad aumentare le concessioni dei privilegi: i beneficiari, tra i vari privilegi nobiliari, erano immuni dalle tasse feudali. Le condizioni economiche della nobiltà sarda non erano delle più floride.

In questo modo i nobili feudali erano possessori di feudi e di Uffici pubblici: un esempio nel secolo XVII: i Castelvì.

 

   Scrive l’Anonimo Piemontese: “La nobiltà della Sardegna è assai numerosa, e fra queste avvenne di antica e di moderna, come tutti gli altri paesi del mondo. Ve n’è titolata, altra che possiede feudi, che non danno titolo, ed altra senza feudi, e che vive di pensioni, e di altri redditi, ed anche col negozio”.

Le rendite feudali erano bassissime, spesso sottoposte da ipoteche; i feudatari di solito vivevano dei compensi derivanti dalla pubblica amministrazione e dai patrimoni, proprietà private, in certi casi non molto rilevanti, o da pensione.

In seguito al Trattato di Londra, Vittorio Amedeo II di Savoia s’impegnava a conservare i privilegi degli abitanti del regno di Sardegna, come ne avevano usufruito sotto il dominio Austriaco e Spagnolo. Insomma, nulla doveva mutare. In quest’apparente tranquillità i sardi non si accorsero di aver cambiato un’altra volta “padrone”.

La Sardegna era priva di leggi, senza commercio, senza dignità, e in balia ai briganti. Questa grave crisi era la causa primaria delle varie dominazioni straniere.

Il re sabaudo fece ben poco per migliorare le condizioni, a parte incrementare la coltivazione del tabacco, già di se incoraggiante durante la breve dominazione austriaca.

“Il peggior male di questo paese – scriveva da Cagliari il primo Viceré, il barone di Saint Remy al re Vittorio Amedeo di Savoia – è che la nobiltà è povera, il paese misero, la gente sfaccendata e senza alcuna attività, l’aria malsana, senza che ci si possa porre rimedio”. “Le plus grand mal que je vois  dans ce pays c’est que la noblesse est pauvre, le pays miserable, et depeuplé, les gents paresseux et sans aucun commerce, et l’air mauvais, sans qu’on puisse y remedie”.

Un altro piemontese lo informava che “le leggi e i privilegi del Regno sembrano fatti apposta per distruggere il povero; le tasse sui commestibili favoriscono il cittadino che ha da spendere, a danno del povero che vende”.

“Sorte peggiore non poteva capitare”.

Lo Stato Sabaudo, esaurita l’azione che lo aveva portato alla crescita e alla affermazione in campo internazionale,  durante il regno di Carlo Emanuele III (1730 – 1773) cade “progressivamente nell’inerzia politica anche al suo interno. Né tale situazione migliorava con il suo successore Vittorio Amedeo III. Il conte Vittorio Alfieri testimone di tale oscurantismo e inerzia politica lo annotta nella sua autobiografia.

In quelle condizioni si perpetua l’unica riforma pensata dal governo sabaudo: la soppressione di fatto dell’istituto parlamentare sardo attraverso il quale si manifestavano le richieste autonomistiche. La Sardegna, visto il periodo di crisi economica, di tutt’altro avrebbe avuto bisogno.

Il censimento del 1728 assegna all’Isola poco più di 310 mila abitanti di cui: 16 mila residenti a Cagliari (la capitale), per una densità pari a 12,87 per Km. 2.  Molte regioni erano spopolate, le campagne incolte, le greggi affamate e magre. Quanti prendevano l’iniziativa di coltivare i campi o di allevare del bestiame, erano costretti a versare parte del ricavato ai feudatari in virtù di leggi feudali capestro, se si tiene conto che gran parte dei feudatari era assente dal mondo sardo e che quindi la poca ricchezza prodotta era trasferita verso altri lidi, si comprende quale fosse la drammaticità della situazione economica nell’Isola.

L’Isola non era solo questo: la sua posizione strategica ne faceva un boccone appetibile per qualsiasi potenza interessata a espandersi con i traffici mediterranei.

E’ certo che la grave crisi economica dell’Isola, i legami ancora saldi tra gli amministratori locali, la nobiltà e il clero, non permetteva nessuna speranza per sfruttarne le risorse, condizionandone fortemente il suo sviluppo economico e sociale.

Il geografo francese Maurice Le Lannou che ha soggiornato diversi anni tra il 1931 e, il 1941, visto, le situazioni in cui versava in quegli anni, hanno detto che “ non c’è forse al mondo un paese che la storia abbia segnato così profondamente”.

Il risveglio avvenne giusto in tempo – scrive Philips Dallas – per affrontare in tempo i vari attacchi dei francesi rivoluzionari a La Maddalena (presente il giovane Napoleone Bonaparte), all’Isola di S. Pietro e alla spiaggia di Cagliari. I Sardi che fornivano i soldati per respingere i francesi (1793) speravano di ricevere un po’ di gratitudine dal loro sovrano. Invece, venne l’anno dell’acchiappare (sa ciappa) “dell’acciappare” , rimasto memorabile nella memoria popolare.

Il 28 aprile 1794 i Cagliaritani andarono alla ricerca dei piemontesi (acciappai is piemontesus) presenti in città per cacciarli via. Fu considerata una vera sommossa popolare, molto civile, anche se i sardi, e in particolare i Cagliaritani, non ne potevano più della presenza dei piemontesi, impiegati di alto grado che usurpavano il lavoro e quindi il pane dei sardi.

Il clero era piuttosto numeroso in rapporto alla popolazione. Oltre ai ministri della Chiesa, c’erano numerosi ordini monastici: Domenicani, Cappuccini, Gesuiti, Mercedari, Trinitari (quelli più diffusi) e Scolopi. Tra questi ultimi, vale la pena di ricordare Padre Giambattista Vassallo dell’Ordine degli scolopi arrivati in Sardegna verso la metà del 1600: un Gesuita che si è impegnato col suo apostolato per oltre quarant’anni.